27.9.07

Merica recensito da Kinematrix




Non par vero di esser diventata noi la “Merica” e non possiamo fare a meno di sorridere con un misto di tenerezza e bonario compatimento al diciottenne Felipe che davanti alla telecamera dichiara con baldanza di volere sfruttare il privilegio di essere discendente di una famiglia italiana, una delle tante che partirono dal Veneto tra fine ottocento e inizio novecento per cercare fortuna nel Brasile delle sterminate piantagioni di caffè, nel frattempo diventato terzeiro mundo. Dall’altra parte del muro, con salto improvviso dal colore e calore di Santu Spiritu, Brasile, il fratello Tiago è già stato inghiottito dal grigio e dal rumore metallico delle fabbriche venete (ritmi che si fanno quasi colonna sonora i suoni delle macchine dentro alle officine) ma a nulla vale dissuadere chi sogna un futuro migliore e un’accoglienza a braccia aperte per i figli dell’Italia che tornano a casa- poiché è biblico, dice l’anziana nonna nella dolce cantilena portoghese, che tutti tornino alla terra da dove sono partiti.


Il bel documentario girato da tre giovani registi alla loro seconda prova di collettivo nasce dall’idea di raccontare questo singolare fenomeno di emigrazione di ritorno, partendo dalla regione simbolo del rifiuto di ogni accoglienza allo straniero che, come ci avverte il trevigiano sindaco Gentilini, involontaria tragicomica caricatura di se stesso, arriva qua sciamando a suggere il miele delle ricchezze padane. E ci racconta delle attese interminabili - dieci, quindici anni - degli italo brasiliani che, albero genealogico alla mano, anelano a quella patente di italianità con la quale possano abbattere i muri della diversità una volta arrivati in Italia. Illusione che con facilità cade e lascia l’amaro in bocca quando si comprende che quell’identità culturale, quel senso di appartenenza che rivendicano semplicemente non esiste, e sei e rimani l’altro.


Che poi la narrazione inevitabilmente si allarghi e diventi una riflessione amara sul fenomeno migratorio tout court, allontanandosi quindi dal cuore dello scambio Veneto-Brasile è forse un peccato, ma assolutamente veniale. Nelle orecchie restano le note di una lingua che mescola lingua portoghese e il tenace persistere di accenti del dialetto veneto nella voce dei nostri anziani emigranti, nei racconti ascoltati da bambini di interminabili traversate oceaniche e nella fatica quotidiana di costruire nuove radici in una terra così lontana. Negli occhi una fotografia che, nel salto netto dai colori caldi e vibranti del Sudamerica alla grigia opacità delle nostre cittadine “civiltà” - secondo le gentiliniane categorie - si fa anch’essa narrazione. Del disincanto, della disillusione, di quell’incomprensibile capacità di cancellare il nostro passato di emigranti che rende avari e respingenti nei confronti di chi oggi non fa che percorrere quegli stessi passi che già facemmo.


Voto: 30/30


Luciana Apicella


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