19.10.07

Intervista per Kinoglaz01 - 19/10/2007



Il film documentario Merica, girato tra Veneto e Brasile, riflette sull’immigrazione di ritorno, fenomeno che coinvolge oggi milioni di brasiliani di origine italiana. Essi sono i discendenti di migliaia di italiani (di cui gran parte provenienti dal Veneto) che, dalla fine dell’800 fino agli anni ’50 del ‘900, partivano per il Sudamerica, in cerca di benessere e ricchezza. Molti di loro, dopo un lunghissimo iter burocratico per ottenere la cittadinanza italiana, stanno “tornando” in Italia, il luogo mitico dei racconti dei nonni, in cerca a loro volta di radici e di benessere, che però spesso non trovano. Anzi spesso essi sono le vittime ingenue di un razzismo senza memoria da parte di quei veneti, che li considerano semplici extracomunitari. Il film, con un montaggio alternato, ci mostra dapprima il Brasile, solare, colorato e vasto, poi il grigio e angusto Veneto. Gli Italo-brasiliani, intervistati in Brasile, sognano l’Italia con entusiasmo; ma quella che sognano è un’Italia che non c’è più o forse non c’è mai stata, se non nei racconti dei loro avi; al contrario, nelle interviste realizzate in Veneto, emerge la delusione e la non integrazione. Paradossalmente risulta molto più integrato un brasiliano, che non ha origini italiane, ma che parla perfettamente l’italiano e ha un lavoro. Questo film ha il grosso merito di portare alla luce la questione dei famosi “italiani all’estero”, di cui tanto si parla, ma di cui in realtà non si sa nulla. E inoltre Merica è un invito alla riflessione sull’ identità nazionale, che, malgrado l’opinione di persone come Gentilini –intervistato nel film con involontario effetto comico- , oggi non coincide più con i confini geografici e culturali, che servono solo ad alimentare odio e razzismo.

Ho intervistato Michele Manzolini, uno dei tre registi (con Federico Ferrone e Francesco Ragazzi)

Da dove nasce l’idea di questo documentario? E chi ha finanziato il film?
Nel 2005 Federico Ferrone e Francesco Ragazzi hanno vinto il “Premio Videopolis” con il documentario Banliyo- Banlieue: questo premio, stanziato dalla regione Veneto, consisteva in un finanziamento di 20.000 euro per produrre un film. Unici vincoli: il tempo a disposizione (solo un anno per produzione e postproduzione), e che il film avesse delle relazioni con la regione Veneto.
Io, come gli altri registi, non sono Veneto, ma avendo vissuto in Brasile per due anni, avevo conosciuto brasiliani di origini italiane, soprattutto venete, che sognavano di rifare il viaggio dei loro nonni ma nella direzione contraria.

La scelta del digitale è stata guidata esclusivamente da ragioni economiche o anche estetiche? Quante e quali videocamere avete utilizzato?
Sarebbe stato impossibile girare in pellicola, specialmente un documentario, genere che richiede molto girato. Inoltre noi siamo di una generazione che non si pone neanche la questione. La pellicola è ormai utilizzata dai grandi vecchi del cinema, anche se persino Herzog gira adesso i suoi film in digitale. Grazie al questo finanziamento abbiamo potuto sperimentare l’HDV su supporto magnetico; all’inizio la qualità dell’immagine ci sembrava analoga al DV, ma poi ci siamo accorti che era di gran lunga migliore. Abbiamo optato per uno stile “cinematografico” con un formato 16:9 e l’utilizzo di panoramiche e campi ampi, anche nelle interviste: senza l’HD non avremmo potuto cogliere dettagli importantissimi e suggestivi, specialmente nelle riprese in Brasile, dove lo spazio è sconfinato. Un apporto importante al film è dato anche dalle didascalie e dall’animazione digitale di Giuseppe Ragazzini: avevamo bisogno di qualcosa di semplice che inquadrasse la situazione, senza appesantire il film. Per lo stesso motivo non abbiamo ricorso a una colonna sonora: abbiamo utilizzato solo una canzone di un gruppo portoghese, i Terrakotta, come accompagnamento dell’animazione. Abbiamo utilizzato una videocamera, la Sony Z1, “maneggiata” da Jaime Palomo Cousido, il nostro operatore. La Mythril, una casa produttrice di Roma, ci ha messo a disposizione sia la videocamera che la cabina di montaggio, oltre ad aiutarci in fase produttiva e distributiva.

Come è stata la fase di montaggio e quale programma avete utilizzato?
È stata la parte più dura! Per due mesi abbiamo lavorato tutti e quattro insieme (con Federico, Francesco e Jaume) 24 ore su 24: avevamo 70 ore di girato e abbiamo dovuto eliminare tante cose, anche belle, da poterci fare quattro film, ma adesso non c’è alcuna voglia di rimettersi su Final cut! Sarebbe servito più tempo e forse una più netta suddivisione delle mansioni, ma forse lavorando individualmente non ce l’avremmo mai fatta!

Copyright o copyleft?
Siamo a favore dei Creative Commons, ma siamo legati alla Mythril, quindi il film è Copyright.

Quali strategie distributive?
Non avevamo una particolare strategia. I nostri canali sono stati i festival, e alcuni cinema, come il Lumiere a Bologna. Adesso il film girerà molto per i centri sociali soprattutto del Veneto, che è chiamato direttamente in causa. La presentazione a Treviso qualche settimana fa, ha destato molto interesse, (anche se non sono mancati i commenti razzisti) tanto da far nascere una collaborazione fissa con l’Arci di Treviso. Per il resto, da perfetti sconosciuti, ci siamo affidati al passaparola e a internet: ha funzionato. Di recente siamo stati a Rimini per l’incontro dei documentaristi italiani. Una delle tematiche più discusse è stata proprio quella della difficoltà distributiva. Moroni portava il suo esempio di distribuzione alternativa: è riuscito a distribuire il suo film documentario Le ferie di Liku, vendendo i biglietti preventivamente su internet, riuscendo così a garantire agli esercenti la presenza di pubblico.


Marina Resta
LINK: http://www.kinoglaz01.net/index.php?mod=read&id=1192824360

Nessun commento: